giovedì, maggio 23, 2019

Lettera aperta contro la modifica in peggio della già discutibile L.170/2010

La seguente lettera è stata resa pubblica sul profilo Facebook dell'autrice principale. Enfasi in grassetto aggiunte dal sottoscritto.

Buonasera caro legislatore...
di Michela Vandelli



Buonasera,
intanto la ringrazio di avermi concesso la possibilità di poterle scrivere.

Come vede dalla firma in calce, sono un'esperta nei processi d'apprendimento. Lavoro con una collega nel polo educativo che abbiamo creato diversi anni fa e seguo molti bambini che presentano difficoltà scolastiche e DSA, moltospesso già segnalati a scuola e con diagnosi.

Il mio lavoro è nato da una dura esperienza personale con i miei tre figli, quindi la mia visione è doppia e si è formata nel corso del tempo, prima come mamma e poi come esperta in materia. La proposta di modifica della legge 170/10 qui di seguito

contiene a mio parere, diversi punti critici che allontanano il tema della dislessia e delle difficoltà di questi bambini dal luogo dove dovrebbero rimanere: la scuola e l’educazione.

Mi occupo di potenziamento e nello specifico delle fragilità dei bambini della primaria, che arrivano da noi con difficoltà "segnalate" dalla scuola, e assisto a dei bei cambiamenti oggettivi che determinano nel tempo miglioramenti evidenti anche in caso di disturbo specifico d’apprendimento.

Vedo bambini cambiare ANCHE dopo l'età minima utile per poter emettere diagnosi di DSA, che sarebbe, per il primo step (in caso di dislessia e disortografia) la fine della seconda primaria, eho visto anche diagnosi rientrare in parametri non più segnalabili, dimostrando di fatto che è possibile modificare le difficoltà attraverso un lavoro specifico e mirato, che tuttavia a scuola NON avviene.

I piccoli potenziamenti che vengono fatti in ambito scolastico (e non sempre) avvengono per un tempo troppo breve (10 ore) e non sono in grado di incidere nel modo giusto. A volte occorrono mesi e, spesso, occorre dare il giusto tempo ai piccoli per crescere, tempo sacrosanto che la scuola difficilmente è in grado di concedere.

La proposta di legge in oggetto vorrebbe anticipare la tempistica diagnostica di ben 2 ANNI, rilevando un'eventuale "fragilità" già nell'ultimo anno della scuola dell'infanzia, senza nessuna esposizione alla letto-scrittura da parte dei bambini.

Seppur sia vero, come stabilisce il documento della Consensus Conference 2010, che i bambini di 5 anni che risultano al di sotto del 10° percentile in diversi test riferibili al linguaggio, hanno un rischio 6 volte maggiore di sviluppare un eventuale DSA, è anche vero che NON sempre un bambino con DSA presenta difficoltà di linguaggio; basti pensare alla discalculia e alla disgrafia.

È vero invece che i problemi di linguaggio vengono già individuati dalle maestre, e inviati per un consulto logopedico.

Individuando tanto precocemente alcuni "fattori di rischio", bisogna poi essere in grado di fornire delle risposte sul territorio per permettere il recupero completo, risposte che molto spesso l'ASL non è in grado di fornire.

Attualmente le ASL prendono in carico SOLAMENTE i casi più gravi, che arrivano comunque attraverso le osservazioni delle maestre della scuola materna e primaria. E molto spesso con tempi di presa in carico a dir poco biblici.

Cosa si vuole, orientare ai privati?


Vorrei ricordare, infine, che a stabilire l'età minima di accesso alla diagnosi è stata la Consensus Conference e le successive leggi regionali, poiché probabilmente gli esperti hanno ritenuto che per stabilire con certezza la presenza di un DSA fosse utile aspettare un tempo idoneo che dovrebbe essere dedicato AL POTENZIAMENTO DIDATTICO, come espresso nel documento che segue:

Individuare segnali di difficoltà in ambito di letto-scrittura SENZA nessuna esposizione, mi sembra oltremodo affrettato e rischioso, e molti di quelli che, come me, fanno questo mestiere, iniziano a chiedersi se davvero questa medicalizzazione già eccessiva di suo, sia la cosa migliore per i nostri bambini.

Molto spesso, poi, dopo la diagnosi, i SOLI strumenti compensativi e le misure dispensative non sono sufficienti ad aiutare un bambino in difficoltà, mentre il potenziamento produce dei cambiamenti che determinano una differenza nelle abilità di base, che permettono molto spesso di poter gestire la difficoltà nel futuro.

Sulla scuola dell'infanzia ci sarebbe poi tutta una riflessione da fare relativa a ciò che effettivamente si fa per sviluppare i prerequisiti necessari per l'apprendimento, che a mio parere sono parecchio carenti in troppe realtà scolastiche.

I numeri in aumento delle difficoltà porterebbero a ipotizzare che non sia possibile ci sia solo ed unicamente una condizione genetica alla base. Se i fattori di rischio prevedono comunque un’interazione con l'ambiente poiché un DSA si sviluppi, forse si potrebbe e dovrebbe pensare, di cominciare a modificare l'ambiente in cui i bambini apprendono e la modalità che si utilizza per insegnare.

Il potenziamento, richiamato ANCHE nelle linee guida della Consensus Conference, sarebbe una risorsa importante e doverosa per la crescita dei piccoli. Un congruo periodo di potenziamento è previsto come fondamentale dalla Consensus Conference, se un potenziamento infatti conduce a un miglioramento NON si può parlare di DSA.

Inoltre ci sono esperti, come la prof.ssa Daniela Lucangeli e il prof. Cornoldi, che affermano che tale concetto è problematico poichè si dà per scontato spesso che la scuola abbia effettuato tale periodo di potenziamento senza miglioramenti.
  
Si tratterebbe pertanto di un lavoro di potenziamento didattico specifico e mirato che dovrebbe fare la scuola stessa, e che invece è previsto solamente in misura ridotta e fino a poco tempo fa completamente assente nonostante le indicazioni stesse della Consensus Conference.

Il rischio CONCRETO è di PATOLOGIZZARE qualsiasi difficoltà.

Nelle Linee Guida allegate al Decreto attuativo della Legge 170 (Decreto ministeriale 12 luglio 2011) si ricorda che “gli insegnanti possono 'riappropriarsi' di competenze educativo-didattiche anche nell’ambito dei DSA, laddove lo spostamento del baricentro in ambito clinico aveva invece portato sempre più a delegare a specialisti esterni funzioni proprie della professione docente o a mutuare la propria attività sul modello degli interventi specialistici, sulla base della consapevolezza della complessità del problema e delle sue implicazioni neurobiologiche. Ora, la complessità del problema rimane attuale e la validità di un apporto specialistico, ovvero di interventi diagnostici e terapeutici attuati da psicologi, logopedisti e neuropsichiatri in sinergia con il personale della scuola non può che essere confermata; tuttavia – anche in considerazione della presenza sempre più massiccia di alunni con DSA nelle classi – diviene sempre più necessario fare appello alle competenze psicopedagogiche dei docenti‘curricolari’ per affrontare il problema, che non può più essere delegato tout court a specialisti esterni ”.

La successiva circolare Ministeriale n° 8 del 2012 in tema di “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” sembra rafforzare di fatto il concetto espresso sopra dell’importanza centrale della scuola in tema di alunni in difficoltà.

Nella proposta di MODIFICA (qui) sembrerebbe menzionato solo un eventuale "laboratorio", ma sembra una parte piuttosto vaga, senza nessun criterio specifico per definire quel “laboratorio” né le eventuali finalità, mentre le altre parti mi sembrano decisamente più chiare.

Le sanzioni agli insegnanti , per esempio, allontanano sempre di più la scuola e i docenti stessi dal ruolo primario e centrale che dovrebbero avere, proprio nei riguardi di chi fa più fatica.

Non è un PDP, che contiene spesso misure standard (e le assicuro che ne vedo tanti) in base al codice diagnostico, che DA SOLO determina differenze sostanziali.

Molto spesso la scuola in questo dover compilare e crocettare si ritrova “annegata” da qualcosa di più simile ad un atto formale, di quanto sia e dovrebbe essere impegnata nella sua azione didattica; è questa la scuola che si vuole?
Davvero si vuole credere che deliberare sanzioni servirà ad avvicinare scuola, insegnanti e famiglie nell'azione educativa che dovrebbe essere comune per il bene dei piccoli?

A mio parere la si allontana solamente, e la si allontana ancora di più proprio nei confronti di chi ha più bisogno. E la distanza è già fin troppo ampia, chi lavora nella scuola lo vede tutti i giorni.

L' indennità di frequenza contenuta in questa proposta, poi, è una misura ispirata dall'ambito dell'invalidità (legge 289/90) nata in origine per i deficit sensoriali come la sordità, adattata ai DSA attraverso azioni legali che hanno stabilito un precedente, e concessa con profonde differenze regionali.

È una Legge che stabilisce comunque una condizione di "invalidità" ridefinita poi come “difficoltà persistente a svolgere i compiti tipici dell’età”, che comunque richiede una visita MEDICA in commissione INPS, che non ha nulla a che fare con i bambini che presentano difficoltà scolastiche o DSA, bambini che CRESCONO E CAMBIANO, e che una volta al di fuori della scuola non hanno nessun problema di tipo lavorativo. Sono invece molto spesso brillanti, con quozienti intellettivi nettamente superiori alla norma, e hanno risorse fuori dal comune.

Sempre nelle Linee Guida allegate al Decreto attuativo della Legge 170 si sottolinea che “per la peculiarità dei Disturbi Specifici di Apprendimento, la Legge apre, in via generale, un ulteriore canale di tutela del diritto allo studio, rivolto specificamente agli alunni con DSA, diverso da quello previsto dalla legge 104/1992 ”. Con tale passaggio si vuole chiarire che i DSA sono ALTRO rispetto alla disabilità e all'invalidità.

Pertanto, se si vuole aiutare le famiglie si pensi piuttosto a un contributo staccato dalla procedura dell'indennità di frequenza, anche se ho la profonda convinzione che se si agisse DAVVERO sulla scuola
  1. abbassando in primis il numero di alunni per classe,
  2. attivando un buon potenziamento anche fino alla fine della scuola primaria, magari con la logica dell’aiuto tra pari che sembra essere una buona misura per i bambini in difficoltà,
  3. inserendo linee guida più specifiche per l'insegnamento della letto-scrittura, come presenti in altri paesi europei,
  4. mettendo nelle condizioni migliori i docenti di fare BENE il loro mestiere,
non ci sarebbe bisogno di pensare né a leggi come la 170/2010, né a una sua eventuale modifica in peggio.

La prego, si pensi alla scuola e all'ambiente in cui questi bambini possono o meno sviluppare un disturbo specifico d'apprendimento. La scienza dice che l’ambiente modifica anche i geni (epigenetica), e la plasticità celebrale è nota e ormai riconosciuta dal mondo scientifico.

A disposizione per ogni chiarimento, la saluto cordialmente.
Michela.
Esperta nei processi d’apprendimento
iscritta all’albo dei professionisti formati da
Erickson, Game trainer, Tutor, Aiuto compiti.

martedì, aprile 30, 2019

Res Idiotica

Articolo originale disponibile qui: https://www.frontporchrepublic.com/2016/02/res-idiotica/
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di By Patrick J. Deneen -  23 febbraio 2016  

South Bend, Indiana (USA)


I miei studenti sono degli ignoranti. Sono assai simpatici, piacevoli, affidabili, per lo più onesti, benintenzionati e senz’altro per bene. Ma i loro cervelli sono in gran parte vuoti, privi di qualsiasi conoscenza sostanziale che possa considerarsi il frutto di un’eredità o di un dono delle generazioni precedenti. Sono il culmine della civiltà occidentale, una civiltà che ha dimenticato le sue origini e i suoi obiettivi e, di conseguenza, ha raggiunto un’indifferenza quasi totale riguardo a se stessa.


È difficile essere ammessi nelle scuole dove ho insegnato, Princeton, Georgetown e ora Notre Dame. Gli studenti di queste istituzioni fanno ciò che è loro richiesto: sono eccellenti risolutori di test, sanno perfettamente cosa bisogna fare per ottenere una A in ogni corso (ossia raramente si appassionato e si applicano a una qualsiasi materia), costruiscono curricula perfetti. Sono rispettosi e cordiali con gli adulti, accomodanti, anche se rozzi (come rivelano frammenti di conversazioni), con i loro pari. Rispettano la diversità (senza avere la minima idea di cosa sia) e sono esperti nell’arte del non giudicare (almeno in pubblico). Sono la crema della loro generazione, i signori dell’universo, una generazione che aspetta di dirigere l’America e il mondo.


Provate però a far loro qualche domanda sulla civiltà che erediteranno e preparatevi a sguardi sfuggenti e preoccupati. Chi ha combattuto le guerre persiane? Qual era la posta in gioco nella battaglia di Salamina? Chi fu il maestro di Platone e chi i suoi allievi? Come è morto Socrate? Alzi la mano chi ha letto sia l’Iliade che l’Odissea. I racconti di Canterbury? Paradiso perduto? L’Inferno?


Chi era Paolo di Tarso? Cos’erano le 95 tesi, chi le aveva scritte e quale ne fu l’effetto? Qual è l’importanza della Magna Carta? Dove e come morì Thomas Becket? Cosa accadde a Carlo I? Chi era Guy Fawkes e perché esiste un giorno a lui dedicato? Cosa accadde a Yorktown nel 1781? Cosa disse Lincoln nel suo secondo discorso di insediamento? Nel primo? Chi sa menzionarmi uno o due argomenti avanzati nel n. 10 del Federalista? Chi l’ha letto? Che cos’è il Federalista?


È possibile che alcuni studenti, grazie a casuali scelte dei corsi o a qualche eccentrico insegnante all’antica, conosca la risposta ad alcune di queste domande; ma molti studenti no, e nemmeno a domande simili, perché non sono stati formati per conoscerle. Nella migliore delle ipotesi possiedono conoscenze casuali, ma altrimenti sguazzano nell’ignoranza sistematica. Non vanno incolpati per la loro profonda ignoranza di storia, politica, arte e letteratura americana e occidentale: è il marchio distintivo della loro formazione. Hanno imparato esattamente ciò che è stato richiesto loro: essere come efemere, vivi per caso in un presente fugace.


L’ignoranza dei nostri studenti non è un difetto del nostro sistema educativo: è il suo coronamento. Gli sforzi di diverse generazioni di filosofi e riformatori ed esperti di politiche pubbliche di cui i nostri studenti (e molti di noi) non sanno nulla si sono combinati per produrre una generazione di ignoranti. La pervasiva ignoranza dei nostri studenti non è un semplice accidente o un risultato sfortunato ma correggibile, solo che assumessimo migliori insegnanti o variassimo la lista di letture al liceo. È la conseguenza di un impegno della civilizzazione verso il suicidio della civiltà. La fine della storia per i nostri studenti segna la fine della storia per l'Occidente.


Durante la mia vita il lamento sull'ignoranza degli studenti è stato cantato da artisti del calibro di ED Hirsch, Allan Bloom, Mark Bauerlein e Jay Leno, tra i molti altri. Ma questi lamenti sono stati sollevati nella speranza che l'appello ai nostri e ai loro migliori istinti avrebbe potuto invertire la tendenza (questa, tra l’altro, è un'allusione a uno dei temi inaugurali sviluppati da Lincoln). ED Hirsch ha persino elaborato un curriculum di auto-aiuto, una guida fai-da-te su come diventare culturalmente istruiti, intriso dello spirito americano ottimista e convinto che la defenestrazione culturale possa essere annullata da una buona lista di letture in allegato. Manca in generale un sufficiente apprezzamento che questa ignoranza è la conseguenza intenzionale del nostro sistema educativo, un segno della sua robusta salute e del suo successo.


Abbiamo preso la brutta e acritica abitudine di ritenere che il nostro sistema educativo sia guasto, ma in realtà marcia a tutto vapore: ciò che intende produrre è amnesia culturale, una totale mancanza di curiosità, agenti indipendenti privi di storia e obiettivi educativi organizzati come processi senza contenuto, con un uso acritico di parole chiave come “pensiero critico”, “diversità”, “modi di conoscere”, “giustizia sociale” e “competenza culturale”. I nostri studenti costituiscono il risultato di un impegno sistematico a produrre individui senza un passato, per cui il futuro è terra straniera, numeri senza cultura in grado di vivere ovunque e svolgere qualsiasi tipo di lavoro, senza farsi domandi sui suoi scopi o fini, strumenti perfetti per un sistema economico che esalta la “flessibilità” (geografica, interpersonale, etica). In un mondo del genere, possedere una cultura, una storia, un'eredità, un impegno verso un luogo e verso persone particolari, forme specifiche di gratitudine e di riconoscenza (piuttosto che un impegno generalizzato e senza radici verso la "giustizia sociale"), un forte insieme di principi etici e di norme morali che affermano limiti definiti a ciò che si dovrebbe o non si dovrebbe fare (a parte “non giudicare”) sono ostacoli e handicap. Indipendentemente dall’indirizzo o corso di studi, il principale obiettivo della moderna educazione è di piallar via ogni residuo di specificità e identità culturale o storica che potrebbe ancora restare attaccata ai nostri studenti, per renderli perfetti impiegati per una politica ed una economia moderne che penalizzano impegni profondi. Gli sforzi volti in primo luogo a promuovere l’apprezzamento per il “multiculturalismo” sono sintomo di un impegno a svuotare qualsiasi particolare identità culturale, mentre l’attuale moda della “differenza” segnala un impegno totale alla deculturazione e all’omogeneizzazione.


I miei studenti sono i frutti di un progetto di lunga data per liberare tutti gli esseri umani dagli accidenti e dalle condizioni di nascita, per creare un'umanità che si auto-crea. Interpretando la libertà come assenza di costrizioni, eredità culturali convenzionali e connessa gratitudine sono state appiccicate come altrettanti limiti arbitrari alle scelte personali, e da qui a questioni contingenti che richiedevano un sistematico smantellamento. Credendo che la fonte della divisione politica e sociale e della guerra fosse un residuo impegno per la religione e la cultura, furono compiuti sforzi diffusi per eliminare tali devozioni in favore di un abbraccio universale di tolleranza e di sé separati. Con la percezione che un sistema economico globalizzato richiedeva lavoratori sradicati che potessero vivere ovunque e svolgere qualsiasi compito senza porsi domande sui relativi obiettivi ed effetti, il compito principale dell’istruzione divenne instillare certe disposizioni, piuttosto che una cultura ben fondata: flessibilità, tolleranza, “competenze” prive di contenuto, astratte “forme di apprendimento”, elogio per la “giustizia sociale”, anche nel contesto di un’economia in cui “il vincitore si prende tutto” [winner-take-all economy], e un feticismo per la differenza che lasciava senza risposta il perché tutti ricevessero la stessa educazione in istituzioni indistinguibili. All’inizio questo ha significato lo svuotamento delle peculiarità locali, regionali e religiose in nome dell’identità nazionale; ora quella delle specificità nazionali in nome di un cosmopolitismo globalizzato che richiede il deliberato oblio di ogni trattato culturalmente caratterizzante. L’incapacità di rispondere a domande banali sull’America o l’Occidente non è la conseguenza di una cattiva educazione, ma il segno di un successo educativo.


Soprattutto l’unica lezione che gli studenti ricevono è quella di considerare sé stessi individui radicalmente autonomi in un sistema globale fondato su un comune impegno alla reciproca indifferenza. È questo impegno che ci lega come popolo globale. Ogni residuo di cultura comune interferirebbe con questo imperativo primario: una cultura comune implicherebbe che condividiamo qualcosa di più denso, un’eredità che non abbiamo creato e un insieme di impegni che implicano limiti e lealtà particolari. La prassi e la filosofia antiche hanno elogiato la “res publica”, una devozione verso gli affari pubblici, ciò che condividiamo; noi abbiamo invece creato la prima “res idiotica” mondiale, dal termine greco “idiotés”, ossia individuo. Il nostro sistema educativo eccelle nel produrre sé solipsistici e autosufficienti il ​​cui unico impegno pubblico è l'assenza di impegno verso ciò che è pubblico, verso una cultura comune, una storia condivisa. Essi sono contenitori perfettamente scavati, ricettivi e obbedienti, senza obblighi o devozioni reali. A loro è stato insegnato a prendersi cura con passione della loro indifferenza e a denunciare la presenza di un'effettiva diversità che minaccia la sicurezza del loro bozzolo. Vivono in un Truman Show perpetuo, un mondo costruito ieri che non è altro che un set per il loro solipsismo, senza storia o traiettoria.


Mi interesso profondamente dei miei studenti - come ogni essere umano ognuno di essi ha un enorme potenziale e grandi doni da concedere al mondo. Ma piango per loro, per ciò che sarebbe giustamente loro ma che ad essi non è stato dato. Nei nostri migliori giorni insieme percepisco il loro desiderio e la loro angoscia, e so che il loro innato desiderio umano di sapere chi essi siano, da dove siano venuti, dove dovrebbero andare e come dovrebbero vivere riaffermerà sempre sé stesso. Ma anche in quei giorni migliori, non posso fare a meno di tenere il pensiero speranzoso che il mondo che hanno ereditato - un mondo senza eredità, senza passato, futuro o preoccupazioni più profonde - stia per crollare e che questo collasso potrebbe essere il vero inizio di una reale insegnamento.




Patrick J. Deneen insegna teoria polica presso la University of Notre Dame. È autore di diversi libri; ha appena pubblicato Why Liberalism Failed.




Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta su Minding the Campus: http: //www.mindingthecampus. org / 2016/02 / come-a-generazione- lost-suo-common-cultura /








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Traduzione della prima parte a cura di Arturo per il post “Storia e democrazia” apparso su http://orizzonte48.blogspot.com/2019/04/storia-e-democrazia.html; traduzione della seconda parte a cura di Stefano Longagnani

domenica, gennaio 06, 2019

Mio figlio scrive al contrario (video)

MIO FIGLIO SCRIVE AL CONTRARIO



Il video presente su Facebook lo accenna solo per una attimo, ma è importantissimo e mi premo di esplicitarlo. 

Le ricerche neuroscientifiche ormai concordano che è la memoria MOTORIA, in particolare del movimento fine della mano che scrive, che permette di riconoscere, anche mentre si legge, con maggiore facilità le lettere che possono essere confuse in fase di apprendimento della letto-scrittura. Si aggiunga a questo che l'allenamento alla motricità fine della mano è correlato sia alle competenze di letto-scrittura sia a quelle logico-matematiche.

È per questa combinazione di motivi, ormai accertati in letteratura in diversi modi, che la scrittura è molto importante (purtroppo a scuola i bambini di oggi scrivono molto MENO di quelli del passato), e soprattutto è importante la scrittura in CORSIVO, perché le singole lettere, in particolare quelle facili da confondere in lettura e scrittura, in corsivo si debbono scrivere con un UNICO GESTO motorio, cosa che non è spesso possibile con lo stampatello maiuscolo. 

È quindi un errore (e un ORRORE) il non insegnare fin da subito ai bambini il corsivo. È importante infatti già nei primi mesi della prima elementare (meglio se già dall'infanzia) allenare la mano ai gesti necessari al corsivo (pregrafismi) e iniziare fin da subito a stabilizzare nei bambini il collegamento tra fonema, grafema corsivo (solo questo!) e movimento scrittorio della mano.

A conferma dell'importanza di non insegnare più di una tipologia di grafema prima che i meccanismi di letto-scrittura siano stabilizzati nella mente del bambino vi è ad esempio una ricerca canadese, svolta su ben 700 alunni seguiti per due anni ed effettuata senza modificare artificialmente le metodologie di insegnamento delle insegnanti. Tale ricerca ha rilevato che ai bambini ai quali per i primi due anni della scuola primaria è stato insegnato una sola tipologia di grafema (solo il corsivo o solo lo stampatello) hanno al termine dei due anni tutti gli indicatori migliori in modo statisticamente significativo rispetto ai bambini ai quali sono stati insegnati entrambi le tipologie di grafemi (evidentemente non hanno potuto stabilizzare il gesto grafico e il collegamento neurale tra fonema, grafema corsivo e movimento scrittorio della mano). La stessa ricerca ha determinato la superiorità del corsivo rispetto allo stampatello in molti degli indicatori rilevati al termine dei due anni (lunghezza dei periodi, velocità di scrittura, correttezza ortografica, correttezza sintattica, ecc. ).