Il piano didattico personalizzato che il consiglio di classe è tenuto a predisporre è, per i genitori di bambini con diagnosi di DSA, lo strumento principe di comunicazione scuola-famiglia.
Nell'esperienza professionale di praticamente tutti i docenti delle scuole superiori con i quali ho scambiato qualche parola sull'argomento, il piano didattico personalizzato (in gergo PDP), viene purtroppo vissuto come una mera incombenza burocratica.
In rari casi è il "referente di caso" (figura non obbligatoria prevista dalla legge 170 del 2010, che la maggior parte delle scuole sceglie di istituire) che può approfondire il dialogo con la famiglia e con lo studente, ma si tratta di sporadiche scelte personali che non cambiano il desolante quadro d'insieme.
Tralasciando volutamente tutta la discussione sull'approccio medicalizzante previsto dalla legge 170 del 2010, lo strumento, il PDP, appare progettato per formalizzare e tracciare quella che è considerata universalmente una buona pratica didattica: osservare lo studente per conoscerne punti di forza e di debolezza, e conseguentemente mettere in campo strategie didattiche individualizzate ed inclusive, per favorirne il successo formativo, cioè l'apprendimento e il consolidamento delle abilità e delle competenze fondamentali.
Nei fatti però il PDP non funziona, e non aiuta quindi a perseguire efficacemente questi obiettivi.
A parole appare tutto abbastanza lineare, e insegnanti e genitori ci si trova facilmente d'accordo che sarebbe bello che non fosse così, e coralmente si vorrebbe che fosse uno strumento di comunicazione scuola-famiglia che permettesse di progettare, di coordinare, di declinare, di includere, ecc. e tanti altri bellissimi auspici. Ma, nei fatti, lo ripeto, genitori e insegnanti sanno che così non è.
E da questo punto in avanti... ci si divide.
Per molti genitori (non per tutti) la colpa è della scuola, anzi, degli insegnanti, che non si informano, che non si formano, che non si interessano, che non gli importa nulla, che rubano lo stipendio, e via a seguire fino ad arrivare, nei casi più estremi, alle cause legali. E lì, davanti ad un magistrato, anche se il PDP non è servito ad aumentare l'istruzione dello studente di un solo bit, lì il PDP, potrebbe finalmente servire.
Per gli insegnanti (non per tutti), d'altra parte, il PDP che i genitori vogliono è fondamentalmente inutile (ma lo si compila diligentemente per evitare i problemi di cui al paragrafo precedente). I genitori in questo caso vengono percepiti come degli scocciatori, un fastidio, anche, si badi, per i migliori tra gli insegnanti. Una perdita di tempo rapportarsi con i genitori per la compilazione del PDP, del preziosissimo tempo che si vorrebbe dedicare agli studenti ed alla materia insegnata.
A complicare la compilazione del PDP inoltre, ci si mette la "fretta" (chiamiamola così...) di molti neuropsichiatri (non tutti) e psicologi (non tutti). Nelle loro diagnosi di DSA infatti, dopo aver visto sì e no due volte o poco più lo studente, e aver passato la quasi totalità del tempo a somministrare test cosiddetti diagnostici, vengono infine copia-incollate tutte le misure dispensative e tutti gli strumenti compensativi previsti dalle linee guida della legge 170/2010.
E così, a disgrafici bravi in matematica viene consigliato l'uso della calcolatrice e della tavola pitagorica, e a discalculici senza problemi di dislessia e di comprensione dei testi (che magari leggono velocemente libri su libri) viene consigliato maggiore tempo per la lettura e per lo studio, in tutte le materie. Per non parlare delle interrogazioni programmate, della dispensa dallo scrivere in corsivo, ecc.
Col PDP che nei fatti non funziona, quando lo studente con diagnosi di DSA ha dei problemi scolastici, la scuola e la famiglia, invece di collaborare, spesso confliggono.
Che fare?
Vorrei portare la mia esperienza di consulente aziendale (anche se la scuola NON è un'azienda, e non dovrebbe essere gestita come un'azienda, per motivi che esulano dagli obiettivi del presente scritto).
In definitiva il PDP appare essere un classico strumento nato per formalizzare una attività, per dare prova esterna, in caso di contenzioso, di aver svolto una attività prescritta.
Quando come consulente analizzavo i processi aziendali, ero incaricato dalla direzione (e ben pagato) di trovare nell'organizzazione i punti critici (dove le cose non andavano) e di proporre modifiche concretamente implementabili. Mi sono occupato praticamente solo di aziende di servizi (anche multinazionali), dove non aveva senso trovare il macchinario difettoso o il pezzo mal progettato: il mio campo di indagine erano le procedure aziendali, e le persone che erano preposte ad attuarle.
Si badi che non mi veniva chiesto di trovare i colpevoli del problema, perché era ovvio a chi mi incaricava che il problema non stava nelle persone (di solito). Infatti se in una organizzazione complessa una persona non svolge in modo dignitoso il proprio lavoro, tutti ne sono in breve tempo al corrente, e non serve certo un consulente esterno per identificarla. Questo è ovviamente ancor più vero per la scuola, dove l'interfaccia col mondo esterno, la classe, è composta di ragazzi e ragazze che hanno tutto l'interesse a rendere pubblici eventuali problemi con docenti negligenti.
Fatta questa doverosa premessa, se, com'è normalmente, i genitori (stakeholder esterni) non sono scocciatori, ma fondamentalmente persone giustamente preoccupate per i propri figli; se, com'è normalmente, gli insegnanti (stakeholder interni) non sono negligenti, ma docenti animati dal desiderio che i propri studenti apprendano... Dove sta allora davvero il problema?
La risposta, se fossimo in azienda, sarebbe semplice e diretta: il problema sta nel PDP, nello strumento scelto dal legislatore per regolare, formalizzare e tracciare l'attività di comunicazione e di relazione scuola-famiglia.
E la risposta è questa non perché li dico io, ma perché lo dicono con chiarezza i fatti. Se lo strumento non funziona.... È lo strumento che non funziona! (A meno di non pensare che una maggioranza schiacciante degli insegnanti e dei genitori sia animata da volontà nichiliste e/o demoniache!).
Se devo scavare una buca ma la pala non funziona... Se devo scrivere ma la biro non funziona...
È lo strumento scelto il vero problema.
Le alternative ci sono. E sono ottime alternative. Per una comunicazione-relazione scuola-famiglia a tutto tondo ad esempio è utilizzabile la metodologia pedagogia dei genitori. Viene già utilizzata con pregevoli successi per accompagnare la compilazione del PEI, o semplicemente per aumentare la qualità della relazione tra insegnanti e genitori. Viene pure utilizzata in ambito sanitario ed educativo per la formazione del personale.
Ma il PDP è previsto dalla legge...
Sì, il PDP è previsto dalla legge, ma le modalità di compilazione e il processo per arrivare alla sua definizione non sono rigidamente normate, e si potrebbe mutuare l'esperienza già presente in diverse scuole d'Italia, dove si sta già utilizzando la metodologia pedagogia dei genitori per migliore il rapporto scuola-famiglia. Si tratterebbe di declinare la metodologia pedagogia dei genitori allo specifico problema della definizione di un PDP condiviso e corale, per fare in modo di costruire insieme, genitori e insegnanti nei rispettivi ruoli, un intervento pedagogico inclusivo, personalizzato e davvero efficace perché sostenuto dall'alleanza educativa tra docenti e genitori dell'intera classe.
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