giovedì, novembre 02, 2017

La contraddittoria difesa della diagnosi

Una diagnosi di DSA significa essere malati? Probabilmente no, perché solitamente non si è in presenza di danni strutturali che impediscano un funzionamento normale del cervello.  D'altra parte la lingua italiana è chiara: quel che si diagnostica son le malattie.

Il vocabolario Treccani riporta la seguente definizione di diagnosi: «s. f. [dal gr. διάγνωσις, dal tema di διαγιγνώσκω «riconoscere attraverso»]. – 1. In medicina, giudizio clinico che consiste nel riconoscere una condizione morbosa in base all’esame clinico del malato, e alle ricerche di laboratorio e strumentali: fare la d., formulare una d.; d. esatta, errata, e indovinare, sbagliare la diagnosi.»

Psicologi e psichiatri sono, come riconosce la legge, professionisti sanitari, sul cui operato vigila il ministero della sanità. Il loro sguardo professionale è quindi clinico. E la clinica, sempre per il vocabolario Treccani, è «Propr., in origine, l’arte di curare il malato a letto; quindi, nell’accezione com., la parte delle scienze mediche indirizzata allo studio diretto del malato e al conseguente trattamento terapeutico;»

Ora, tra gli operatori che a vario titolo vengono in contatto con  la "diagnosi" di DSA va diffondendosi una difesa della diagnosi basata sul dire che avere una diagnosi non significa avere una malattia, che il DSA riportato coi propri codici, codici ripresi nel DSM (il Manuale diagnostico e Statistico dei disturbi Mentali) non è una malattia mentale.

Pur essendo convinto che nella stragrande maggioranza dei casi una diagnosi di DSA non significhi affatto la presenza di un disturbo mentale (cioè di una malattia), difendere la diagnosi e contemporaneamente negare la malattia è una posizione alquanto contraddittoria. Se non si ha una malattia una diagnosi non serve, o quantomeno si tratta di un processo improprio (che può dunque avere effetti collaterali deleteri). Viceversa se una diagnosi serve davvero è perché si tratta di una malattia che vogliamo diagnosticare per proporre una terapia.

Facciamo pace con la lingua italiana, per favore.

Anche perché come ha detto qualcuno "le parole sono pietre". Dietro l'uso di determinati termini c'è un universo culturale. E medicalizzare le difficoltà di apprendimento porta lontano da una soluzione educativa, stigmatizzando i bambini in difficoltà.

Dire ai bambini, e soprattutto agli adulti di riferimento di questi bambini, che su di loro è stata prodotta una diagnosi, cioè parlare di un fatto sanitario, significa molto spesso attivare stereotipi demotivanti.

Chi ha una diagnosi di DSA non è nella stragrande maggioranza dei casi un malato, non è un poverino. Non va passato il messaggio di incapacità che una diagnosi rischia di rinforzare. Non vanno semplificati i concetti da apprendere abbassando gli obiettivi perché non siamo di fronte a una persona che non può imparare. Il bambino va accompagnato a conoscersi e a capirsi, va aiutato a superare le proprie difficoltà di apprendimento attraverso modalità appropriate di utilizzo della propria mente, che gli studi più recenti considerano fortemente capace di ristrutturarsi grazie a quella caratteristica meravigliosa del cervello chiamata neuroplasticità. Ma questo è un percorso educativo, non terapeutico!

E infatti non sono noti studi scientifici che sostengano che una diagnosi di DSA aiuti gli apprendimenti, mentre ci sono buoni motivi per dubitare del contrario, ad esempio considerando il potente effetto pigmalione.

La contrapposizione tra pedagogia e psicologia ha due terreni di contrapposizione. Quello economico (che non mi appassiona, ma che fornisce una chiave interpretativa molto potente per certe prese di posizione dell'una o dell'altra parte), e quello culturale. Dal punto di vista culturale sta evidentemente "vincendo" la psicologia, che sta occupando spazi che solo trenta anni fa erano di competenza di pedagogisti ed educatori. Questo è un bene o un male?

Una risposta semplice e facilmente comprensibile a questa domanda non c'è. Anche se a me spaventa abbastanza l'idea che la diversità umana venga catalogata, allo scopo di illudersi di possedere un criterio ordinatore che ci permetta di scegliere tra chi è normale e chi no.

Direi che anche in questo caso, come in molti altri fatti  sociali, per capire perché si è presa una certa direzione risulta molto utile guardare a come "gira il fumo", cioè da che parte vanno i soldi e il potere.

7 commenti:

  1. Assolutamente ragionevole, ma solo l'inizio di un possibile ragionamento.

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    1. Assolutamente d'accordo. Il problema è che siamo arrivati al punto che mentre un novantenne cui sia occorso un ictus è sottoposto a riabilitazione, a un bambino di otto anni con diagnosi di discalculia viene data in mano una calcolatrice, col rischio concreto di comprometterne per sempre il pieno recupero delle difficoltà. E questo è solo uno degli innumerevoli esempi.

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  2. Onorata di essere spesso nel bene e o nel male fonte di ispirazione.

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    1. Nel bene. Solo nel bene.

      ...

      Purtroppo manca la parte di riflessione sul perché a volte la diagnosi viene considerata utile. Su questo, che è un fatto indiscutibile (è oggettivo che ci siano persone sensate e in buona fede che considerano sinceramente la diagnosi utile perché così è l'esperienza che hanno vissuto), non ho ancora le idee abbastanza chiare. E rischierei di scrivere castronerie.
      È probabilmente un processo complesso, con dei pro e dei contro. Penso che ci siano persone che notano più i pro e altre più i contro, rispetto al loro vissuto personale. Ma una valutazione complessiva dovrebbe tener conto non solo del vissuto personale (che è oggettivamente importante ma parziale). Inoltre non tutti i percorsi sono buoni per tutti. Siamo diversi e la diversità è una buona cosa.

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  3. Strano " nel bene" quello di cercare puntigliosamente contraddizioni.

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  4. Promemoria:
    http://www.lescienze.it/news/2015/11/19/news/morfologia_corteccia_cerebrale_umana_ereditabile-2852723/

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