La domanda non ha senso. La dislessia probabilmente esiste, ma la scienza non dispensa certezze, e non è in grado di rispondere a nessuna domanda del genere. La scienza è solo in grado di falsificare teorie, ipotesi e deduzioni. Non esiste in ambito scientifico la prova definitiva che una teoria sia "vera".
Quel che sicuramente non esiste è una definizione condivisa e operativa per individuarla in modo inoppugnabile.
Le domande che dobbiamo porci, che sembrano scontate ma non lo sono, alle quali dobbiamo con onestà e chiarezza interiore rispondere, sono due.
E seconda e più importante domanda, come distinguerla, se e quando è distinguibile, dai danni neuronali provocati al cervello da un ambiente educativo non ottimale?
Nessun test di performance (quelli usati per le diagnosi) risponde minimamente a questa domanda. Semplicemente non può rispondere a una meta-domanda sul perché il test stesso viene "sbagliato". In quel momento, da quel bambino.
E nemmeno le bellissime immagini dei neuroscienziati che ci mostrano un cervello "dislessico" funzionare diversamente da un cervello "normale" possiamo affermare che fughino i dubbi.
Dov'è la prova che il funzionamento attuale non sia il frutto di passati stimoli ambientali non ottimali?
Ad esempio insegnanti pericolosi, troppa tecnologia in tenera età, didattica inadeguata, esposizione precoce a stimoli sbagliati o ad apprendimenti controproducenti, ecc.
Come esser certi che sia un destino "inevitabile"?
In questa situazione di incertezza dobbiamo applicare, per il bene di ogni bambino, il principio di precauzione.
Dobbiamo quindi investire risorse nella ricerca dei migliori setting che favoriscono il corretto apprendimento della lettura e delle competenze di base.
Tra l'altro sappiamo per certo che esiste il potentissimo effetto pigmalione; dobbiamo quindi difendere i bambini da "narrazioni" negative su di loro (cosa che spesso provoca una diagnosi).
Contornarli di fiducia, senza metter loro fretta, senza criticarli.
Per annullare il confronto sociale negativo che li fa sentire diversi, più lenti, in difficoltà, bisognerebbe:
1) togliere i voti (ma a cosa servono prima delle superiori?! A rendere superbi i bravi e depressi gli altri?! A rassicurare o a preoccupare i genitori?! );
2) Fare classi con alunni di età mista: questo permetterebbe a ognuno di avere, anche in tempi diversi, compagni più bravi da cui imparare e compagni in difficoltà a cui insegnare, senza sentirsi sempre "il più stupido";
3) la didattica dovrebbe essere non giudicante (senza premi o punizioni), ma osservativa (per poter fare i cambiamenti al setting didattico opportuni a favorire l'apprendimento mano a mano che procede;
4) bisognerebbe che l'insegnante fosse formato a intervenire il meno possibile, solo su richiesta dell'alunno, favorendo il naturale bisogno di apprendere di ogni cucciolo d'uomo.
5) bisognerebbe insomma formare autodidatti.
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aggiornato il 4 ottobre 2016
Un autorevole studio della Washington University certifica che sui bambini con diagnosi di dislessia potenziare funziona. Anche a modificare come appare ai neuroscienziati il cervello (rendendo qiindi problematiche le diagnosi di dislessia attraverso il neuro scanning).
RispondiEliminaTeniamo presente che secondo l'italiana Conference Consensus la resistenza al potenziamento è sintomo necessario ed ineludibile per una corretta diagnosi. Ma il potenziamento funziona, ci dicono dagli USA. Lascio a chi legge il tirare le dovute conseguenze. L'articolo divulgativo è qui:
http://www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2018/06/22/news/dislessia_una_formazione_mirata_modifica_specifiche_aree_del_cervello-199715725/?ref=RHPPBT-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1