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giovedì, maggio 23, 2019

Lettera aperta contro la modifica in peggio della già discutibile L.170/2010

La seguente lettera è stata resa pubblica sul profilo Facebook dell'autrice principale. Enfasi in grassetto aggiunte dal sottoscritto.

Buonasera caro legislatore...
di Michela Vandelli



Buonasera,
intanto la ringrazio di avermi concesso la possibilità di poterle scrivere.

Come vede dalla firma in calce, sono un'esperta nei processi d'apprendimento. Lavoro con una collega nel polo educativo che abbiamo creato diversi anni fa e seguo molti bambini che presentano difficoltà scolastiche e DSA, moltospesso già segnalati a scuola e con diagnosi.

Il mio lavoro è nato da una dura esperienza personale con i miei tre figli, quindi la mia visione è doppia e si è formata nel corso del tempo, prima come mamma e poi come esperta in materia. La proposta di modifica della legge 170/10 qui di seguito

contiene a mio parere, diversi punti critici che allontanano il tema della dislessia e delle difficoltà di questi bambini dal luogo dove dovrebbero rimanere: la scuola e l’educazione.

Mi occupo di potenziamento e nello specifico delle fragilità dei bambini della primaria, che arrivano da noi con difficoltà "segnalate" dalla scuola, e assisto a dei bei cambiamenti oggettivi che determinano nel tempo miglioramenti evidenti anche in caso di disturbo specifico d’apprendimento.

Vedo bambini cambiare ANCHE dopo l'età minima utile per poter emettere diagnosi di DSA, che sarebbe, per il primo step (in caso di dislessia e disortografia) la fine della seconda primaria, eho visto anche diagnosi rientrare in parametri non più segnalabili, dimostrando di fatto che è possibile modificare le difficoltà attraverso un lavoro specifico e mirato, che tuttavia a scuola NON avviene.

I piccoli potenziamenti che vengono fatti in ambito scolastico (e non sempre) avvengono per un tempo troppo breve (10 ore) e non sono in grado di incidere nel modo giusto. A volte occorrono mesi e, spesso, occorre dare il giusto tempo ai piccoli per crescere, tempo sacrosanto che la scuola difficilmente è in grado di concedere.

La proposta di legge in oggetto vorrebbe anticipare la tempistica diagnostica di ben 2 ANNI, rilevando un'eventuale "fragilità" già nell'ultimo anno della scuola dell'infanzia, senza nessuna esposizione alla letto-scrittura da parte dei bambini.

Seppur sia vero, come stabilisce il documento della Consensus Conference 2010, che i bambini di 5 anni che risultano al di sotto del 10° percentile in diversi test riferibili al linguaggio, hanno un rischio 6 volte maggiore di sviluppare un eventuale DSA, è anche vero che NON sempre un bambino con DSA presenta difficoltà di linguaggio; basti pensare alla discalculia e alla disgrafia.

È vero invece che i problemi di linguaggio vengono già individuati dalle maestre, e inviati per un consulto logopedico.

Individuando tanto precocemente alcuni "fattori di rischio", bisogna poi essere in grado di fornire delle risposte sul territorio per permettere il recupero completo, risposte che molto spesso l'ASL non è in grado di fornire.

Attualmente le ASL prendono in carico SOLAMENTE i casi più gravi, che arrivano comunque attraverso le osservazioni delle maestre della scuola materna e primaria. E molto spesso con tempi di presa in carico a dir poco biblici.

Cosa si vuole, orientare ai privati?


Vorrei ricordare, infine, che a stabilire l'età minima di accesso alla diagnosi è stata la Consensus Conference e le successive leggi regionali, poiché probabilmente gli esperti hanno ritenuto che per stabilire con certezza la presenza di un DSA fosse utile aspettare un tempo idoneo che dovrebbe essere dedicato AL POTENZIAMENTO DIDATTICO, come espresso nel documento che segue:

Individuare segnali di difficoltà in ambito di letto-scrittura SENZA nessuna esposizione, mi sembra oltremodo affrettato e rischioso, e molti di quelli che, come me, fanno questo mestiere, iniziano a chiedersi se davvero questa medicalizzazione già eccessiva di suo, sia la cosa migliore per i nostri bambini.

Molto spesso, poi, dopo la diagnosi, i SOLI strumenti compensativi e le misure dispensative non sono sufficienti ad aiutare un bambino in difficoltà, mentre il potenziamento produce dei cambiamenti che determinano una differenza nelle abilità di base, che permettono molto spesso di poter gestire la difficoltà nel futuro.

Sulla scuola dell'infanzia ci sarebbe poi tutta una riflessione da fare relativa a ciò che effettivamente si fa per sviluppare i prerequisiti necessari per l'apprendimento, che a mio parere sono parecchio carenti in troppe realtà scolastiche.

I numeri in aumento delle difficoltà porterebbero a ipotizzare che non sia possibile ci sia solo ed unicamente una condizione genetica alla base. Se i fattori di rischio prevedono comunque un’interazione con l'ambiente poiché un DSA si sviluppi, forse si potrebbe e dovrebbe pensare, di cominciare a modificare l'ambiente in cui i bambini apprendono e la modalità che si utilizza per insegnare.

Il potenziamento, richiamato ANCHE nelle linee guida della Consensus Conference, sarebbe una risorsa importante e doverosa per la crescita dei piccoli. Un congruo periodo di potenziamento è previsto come fondamentale dalla Consensus Conference, se un potenziamento infatti conduce a un miglioramento NON si può parlare di DSA.

Inoltre ci sono esperti, come la prof.ssa Daniela Lucangeli e il prof. Cornoldi, che affermano che tale concetto è problematico poichè si dà per scontato spesso che la scuola abbia effettuato tale periodo di potenziamento senza miglioramenti.
  
Si tratterebbe pertanto di un lavoro di potenziamento didattico specifico e mirato che dovrebbe fare la scuola stessa, e che invece è previsto solamente in misura ridotta e fino a poco tempo fa completamente assente nonostante le indicazioni stesse della Consensus Conference.

Il rischio CONCRETO è di PATOLOGIZZARE qualsiasi difficoltà.

Nelle Linee Guida allegate al Decreto attuativo della Legge 170 (Decreto ministeriale 12 luglio 2011) si ricorda che “gli insegnanti possono 'riappropriarsi' di competenze educativo-didattiche anche nell’ambito dei DSA, laddove lo spostamento del baricentro in ambito clinico aveva invece portato sempre più a delegare a specialisti esterni funzioni proprie della professione docente o a mutuare la propria attività sul modello degli interventi specialistici, sulla base della consapevolezza della complessità del problema e delle sue implicazioni neurobiologiche. Ora, la complessità del problema rimane attuale e la validità di un apporto specialistico, ovvero di interventi diagnostici e terapeutici attuati da psicologi, logopedisti e neuropsichiatri in sinergia con il personale della scuola non può che essere confermata; tuttavia – anche in considerazione della presenza sempre più massiccia di alunni con DSA nelle classi – diviene sempre più necessario fare appello alle competenze psicopedagogiche dei docenti‘curricolari’ per affrontare il problema, che non può più essere delegato tout court a specialisti esterni ”.

La successiva circolare Ministeriale n° 8 del 2012 in tema di “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” sembra rafforzare di fatto il concetto espresso sopra dell’importanza centrale della scuola in tema di alunni in difficoltà.

Nella proposta di MODIFICA (qui) sembrerebbe menzionato solo un eventuale "laboratorio", ma sembra una parte piuttosto vaga, senza nessun criterio specifico per definire quel “laboratorio” né le eventuali finalità, mentre le altre parti mi sembrano decisamente più chiare.

Le sanzioni agli insegnanti , per esempio, allontanano sempre di più la scuola e i docenti stessi dal ruolo primario e centrale che dovrebbero avere, proprio nei riguardi di chi fa più fatica.

Non è un PDP, che contiene spesso misure standard (e le assicuro che ne vedo tanti) in base al codice diagnostico, che DA SOLO determina differenze sostanziali.

Molto spesso la scuola in questo dover compilare e crocettare si ritrova “annegata” da qualcosa di più simile ad un atto formale, di quanto sia e dovrebbe essere impegnata nella sua azione didattica; è questa la scuola che si vuole?
Davvero si vuole credere che deliberare sanzioni servirà ad avvicinare scuola, insegnanti e famiglie nell'azione educativa che dovrebbe essere comune per il bene dei piccoli?

A mio parere la si allontana solamente, e la si allontana ancora di più proprio nei confronti di chi ha più bisogno. E la distanza è già fin troppo ampia, chi lavora nella scuola lo vede tutti i giorni.

L' indennità di frequenza contenuta in questa proposta, poi, è una misura ispirata dall'ambito dell'invalidità (legge 289/90) nata in origine per i deficit sensoriali come la sordità, adattata ai DSA attraverso azioni legali che hanno stabilito un precedente, e concessa con profonde differenze regionali.

È una Legge che stabilisce comunque una condizione di "invalidità" ridefinita poi come “difficoltà persistente a svolgere i compiti tipici dell’età”, che comunque richiede una visita MEDICA in commissione INPS, che non ha nulla a che fare con i bambini che presentano difficoltà scolastiche o DSA, bambini che CRESCONO E CAMBIANO, e che una volta al di fuori della scuola non hanno nessun problema di tipo lavorativo. Sono invece molto spesso brillanti, con quozienti intellettivi nettamente superiori alla norma, e hanno risorse fuori dal comune.

Sempre nelle Linee Guida allegate al Decreto attuativo della Legge 170 si sottolinea che “per la peculiarità dei Disturbi Specifici di Apprendimento, la Legge apre, in via generale, un ulteriore canale di tutela del diritto allo studio, rivolto specificamente agli alunni con DSA, diverso da quello previsto dalla legge 104/1992 ”. Con tale passaggio si vuole chiarire che i DSA sono ALTRO rispetto alla disabilità e all'invalidità.

Pertanto, se si vuole aiutare le famiglie si pensi piuttosto a un contributo staccato dalla procedura dell'indennità di frequenza, anche se ho la profonda convinzione che se si agisse DAVVERO sulla scuola
  1. abbassando in primis il numero di alunni per classe,
  2. attivando un buon potenziamento anche fino alla fine della scuola primaria, magari con la logica dell’aiuto tra pari che sembra essere una buona misura per i bambini in difficoltà,
  3. inserendo linee guida più specifiche per l'insegnamento della letto-scrittura, come presenti in altri paesi europei,
  4. mettendo nelle condizioni migliori i docenti di fare BENE il loro mestiere,
non ci sarebbe bisogno di pensare né a leggi come la 170/2010, né a una sua eventuale modifica in peggio.

La prego, si pensi alla scuola e all'ambiente in cui questi bambini possono o meno sviluppare un disturbo specifico d'apprendimento. La scienza dice che l’ambiente modifica anche i geni (epigenetica), e la plasticità celebrale è nota e ormai riconosciuta dal mondo scientifico.

A disposizione per ogni chiarimento, la saluto cordialmente.
Michela.
Esperta nei processi d’apprendimento
iscritta all’albo dei professionisti formati da
Erickson, Game trainer, Tutor, Aiuto compiti.

sabato, ottobre 20, 2018

Alcune meta domande sui DSA

DSA
Perché le diagnosi non fanno che aumentare?
E perché tanta disomogeneità territoriale tra una provincia e l'altra, tra una regione italiana e l'altra?

Per provare a rispondere a queste domande bisogna suddividere il fenomeno in due: da una parte i criteri diagnostici, dall'altra il "sistema" di gestione che la legge 170/2010 ha delineato e sostanzialmente imposto.

1) IL PROTOCOLLO DIAGNOSTICO
I criteri diagnostici sono un aspetto molto critico, e verranno discussi in modo approfondito in un post ad hoc.
Qui mi limito ad osservare che i protocolli diagnostici vengono decisi periodicamente a livello nazionale dalla Conference Consensus, organo in mano agli stessi "esperti" che poi potrebbero trarre rilevanti benefici economici dall'aumento dei casi di DSA. Solo per fare un esempio: diversi dei luminari implicati quali consulenti per la stesura della stessa legge 170/2010 e per il decreto successivo contenente le discutibili linee guida, sono in palese conflitto di interessi.
Molti di loro fanno affari a vario titolo: mediante pubblicazioni specialistiche e/o divulgative sull'argomento, oppure collaborano con doposcuola a pagamento specificamente per bambini e ragazzi con diagnosi di DSA, inoltre molti di essi formulano essi stessi diagnosi nei loro studi privati, arrivando a farsi pagare anche oltre 400 euro per una singola diagnosi.
Effettuare una diagnosi, dopo adeguata anamnesi, prevede dal punto di vista operativo di somministrare test di performance, progettati sulla falsariga dei test del QI, tarati statisticamente, quindi sensibili alla popolazione di riferimento e a dove venga fissata dagli "specialisti" la soglia di non "normalità".
Oltre a tutti i difetti già noti in letteratura relativi ai test per la stima del QI, questi specifici test sono molto sensibili a dove gli "specialisti" fissano la soglia, visto che per molte delle abilità testate la distribuzione delle performance non è affatto una gaussiana.
Inoltre, e questa è una critica sollevata pure da parte di esperti del settore, il protocollo diagnostico prevederebbe, prima che lo "specialista" possa formulare una diagnosi, di valutare la cosiddetta "resistenza all'intervento", la resistenza cioè del "disturbo" a evidenziarsi anche dopo rilevanti interventi di recupero dell'attività testata come deficitaria.
Per chiarezza: se per esempio un bambino fatica tra le altre cose ad automatizzare il calcolo mentale, lo specialista che lo rileva dovrebbe, prima di poter emettere una diagnosi basata anche su tale fragilità rilevata, potenziare con specifiche attività di recupero tale aspetto cognitivo. Se dopo un congruo periodo di potenziamento, condotto in modo "adeguato" (e qui si potrebbe aprire un universo di obiezioni su come valutare adeguato un intervento didattico che non ha sortito effetto) il bambino non migliora o migliora troppo poco, questo sarebbe indice della cosiddetta "resistenza all'intervento", parametro fondamentale per formulare una diagnosi.
Non mi risulta però che tale "resistenza all'intervento" venga rilevata come sopra descritto se non in pochi rari casi. La prassi è invece quella della sola intervista anamnesica: se la frequenza scolastica è stata regolare si suppone che sia stata la scuola a mettere in campo gli interventi necessari. Se il problema persiste, e se ci si trova nello studio del diagnosta il problema ovviamente sta persistendo, si può supporre, in "scienza e coscienza" fino a che punto non lo capisco, che la resistenza all'intervento si sia "chiaramente" manifestata.

2) IL SISTEMA DI GESTIONE DEI DSA
Fondamentalmente si tratta di un malefico meccanismo che conviene a tutti. Meno che ai bambini ovviamente. Non si tratta di un complotto, ma della spontanea luciferina convergenza degli interessi, di varia natura, del mondo adulto.
Conviene ai "luminari" che in università ci costruiscono sopra una carriera.
Conviene a psicologi e psichiatri che fanno le diagnosi privatamente, diagnosi che arrivano a costare anche 400 euro (solo ieri ne ho vista una pagata oltre 240 euro).
Conviene ai docenti, ai quali viene fornito su un piatto d'argento un alibi "scientifico" per i loro fallimenti educativi. Perché un docente dovrebbe mettersi in discussione se i suoi studenti non imparano? Se questi studenti, "poverini", hanno un disturbo mentale, "non è certo colpa mia" penserà il docente.
Alcuni docenti poi attivano la modalità "cacciatore di DSA", e quando arriva l'agognata diagnosi, li vedi camminare tronfi per i corridoi, soddisfatti e pronti a chiosare il perfido "ve l'avevo detto che aveva qualcosa che non andava!". Per tacere delle funzioni strumentali create in ogni scuola, e retribuite per occuparsi della parte burocratica prevista dalla legge.
Conviene, duole dirlo, ai genitori. In questo caso la "convenienza" è di tipo completamente diverso. Si tratta del sacrosanto sollievo, una vera liberazione, che provano i genitori quando finalmente viene dato un nome, un'etichetta, alla reale e fin troppo concreta difficoltà scolastica del proprio figlio.
Qui però si manifesta una sorta di inganno, di promessa non mantenuta dal meccanismo medicalizzante. I genitori trovano sollievo nell'etichetta data alle difficoltà del proprio amato figlio perché sperano, giustamente, che una volta individuata il nome del male, si possa finalmente correre ai ripari, fare finalmente qualcosa contro quelle difficoltà scolastiche reali che in molti casi per anni hanno avvelenato la vita famigliare.
Ecco che però la diagnosi, che richiama il concetto oscuro di malattia ma anche quello luminoso di cura, del prendersi cura verso l'amata prole, non rispetta le aspettative. La cura proposta rientra nella categoria delle cure palliative, della diminuzione del dolore in attesa della morte, verrebbe da dire.
"Misure dispensative" vengono chiamati gli esoneri all'apprendimento che vengono decisi dal consiglio di classe, su suggerimento de "l'esperto" incaricato e sulla base della legge e delle sue "perentorie" linee guida.
Psichiatra o psicologo che sia, cosa ne sa "l'esperto" di turno di apprendimenti? A meno di lodevoli casi fuori dall'ordinario, cosa ne sa il diagnosta della relazione educativa? Cosa ne sa delle dinamiche di classe? Nel percorso diagnostico mai  viene sentito o criticamente esaminato l'ambiente scolastico. Il risultato netto è che il bambino viene letteralmente e praticamente dispensato da determinati apprendimenti.
Fa fatica a scrivere in corsivo perché impugna male la penna e perché nessuno gli ha correttamente insegnato la programmazione motoria dei caratteri? Dispensato: scriva in stampatello per sempre.
Fa fatica a ricordare le tabelline perché la didattica applicata non prevedeva la stimolazione multisensoriale e non c'è stata attenzione alle cattive abitudini mentali che i bambini dotati dal punto di vista linguistico sogliono prendere nei confronti della matematica? Dispensato: gli si dia in mano una calcolatrice per sempre. Così che dopo pochi anni ne avrà bisogno per fare 20+20 o 4² (esempi non a caso; mi sono capitati realmente).
La calcolatrice rientra tra quelli che vengono chiamati "strumenti compensativi", come pure il correttore ortografico dell'elaboratore di testi, o il libro digitale con la possibilità di essere letto da una  voce robotica.
L'esempio fuorviante che viene fatto alle famiglie e agli stessi bambini, che in molti casi sono giustamente diffidenti verso tali soluzioni "didattiche", è quello degli occhiali. Ai miopi non si mettono forse sul naso gli occhiali? Diventa "logico" mettere in mano la calcolatrice ai cosiddetti discalculici.
Peccato che non essendoci modificazioni organiche irreversibili (il cervello è per definizione neuroplastico) l'esempio calzante non è quello degli occhiali, ma quello della sedia a rotelle. Un bambino con difficoltà a deambulare al quale si fornisca una comoda sedia a rotelle in pochi anni rischia di essere del tutto incapace di ogni più piccolo spostamento autonomo.
E questo lo si fa, si badi, SENZA una sola ricerca che provi che fornendo "strumenti compensativi" gli apprendimenti in quello specifico dominio cognitivo MIGLIORINO rispetto a chi di questi strumenti ha invece dovuto fare a meno. Al contrario sono numerose le ricerche che provano la meravigliosa potenza della suddetta neuroplasticità cerebrale. Il cervello di tutti, correttamente stimolato, impara.
L'irrazionalità di tali soluzioni "dispensative" è massima. Si pensi al fatto che un adulto o un anziano colpito da ictus, quindi con un rilevante danno organico, viene normalmente sottoposto a rieducazione per ritornare a parlare, a scrivere, ecc. A "funzionare" normalmente insomma. E i risultati che si ottengono in questo campo sono coi decenni diventati sempre più rilevanti. Il cervello non finisce di stupire e nuove ricerche spostano sempre più in avanti nell'età adulta e anziana la sua capacità di ristrutturarsi, di "imparare" insomma.
L'opportunità di apprendimento che si offrono normalmente ad un anziano colpito da ictus, vengono invece negate ad un cervello in età evolutiva, fornendo svariate "misure dispensative" e tecnologici "strumenti compensativi".
Come una volta mi ha detto una tutor dell'apprendimento, convinta sostenitrice del potenziamento didattico, visti i buoni risultati raggiunti:

«il miglior strumento compensativo è il cervello».

Detto questo rimangono da analizzare le notevoli differenze territoriali dei casi che si rilevano.
Un fenomeno analogo si è verificato negli USA nelle diagnosi di ADHD (Sindrome da iperattività ed attenzione), diagnosi che in percentuale diminuivano all'aumentare della distanza dalle università impegnate nella ricerca proprio su tale fronte. Si potrebbe ipotizzare un effetto correlato alle conoscenze specifiche degli operatori. Più vicino ci si trova ai centri di irradiazione delle "conoscenze" specialistiche relative ai protocolli diagnostici, e maggiore è l'attenzione che viene rivolta nel cercare di individuare soggetti passibili di diagnosi.
A Modena, per esempio, l'università è all'avanguardia nella ricerca precoce dei bambini con presunti DSA. A questo scopo una apposita convenzione tra Azienda Sanitaria Locale e scuole primarie della provincia permette di sottoporre a pre test diagnostici tutti i bambini delle classi prime delle scuole primarie della provincia.
È da poco stato stipulato un'ennesima convenzione tra le scuole medie inferiori della città di Modena per un'analoga iniziativa. A novembre di quest'anno tutti i bambini delle classi prime verranno sottoposti a pre test diagnostici, e nel caso indirizzati al servizio di neuropsichiatria infantile della ASL.
Questo invio in massa ingolferà le code di attesa e molti genitori, messi in ansia dalle comunicazioni giunte dalla scuola, presumibilmente si rivolgeranno a professionisti, psicologi e psichiatri, che potranno così beneficiare economicamente di questa iniziativa.
Dove questi meccanismi non sono ancora stati creati è parecchio più debole la spinta alla medicalizzazione dei problemi scolastici. In presenza di difficoltà scolastiche si opera, nei casi migliori, aiutando il bambino con attività di potenziamento didattico e, nei casi peggiori, lasciando ai soli insegnanti il carico della responsabilità dei recuperi. In questi ultimi casi, i più frequenti, la fortuna di incontrare un bravo docente è ancora fondamentale.

giovedì, settembre 15, 2016

BES

BES = Bisogni Educativi Speciali.

Accettare questo "paradigma" vuol dire accettare che invece la maggior parte dei discenti possa essere gestita come avessero dei bisogni educativi NORMALI, o addirittura  come che non abbiano proprio dei bisogni educativi.

Altro punto che si accetta se si rimane all'interno di questo pseudo paradigma è che ai bisogni educativi, se sono appunto speciali, sia corretto rispondere compilando un PDP e attuando quindi misure DISPENSATIVE rispetto a determinati apprendimenti, e fornendo strumenti COMPENSATIVI di determinate abilità sull'acquisizione delle quali non val dunque la pena spendere del tempo.

Tutto questo e molto più contiene quella sigla. 

Invito tutti gli insegnanti ad esaminare criticamente la congruità di un tale concetto, e delle sue implicazioni educative e didattiche, alla luce della propria esperienza di insegnamento.

giovedì, dicembre 03, 2015

Il PDP non funziona

Il piano didattico personalizzato che il consiglio di classe è tenuto a predisporre è, per i genitori di bambini con diagnosi di DSA, lo strumento principe di comunicazione scuola-famiglia.

Nell'esperienza professionale di praticamente tutti i docenti delle scuole superiori con i quali ho scambiato qualche parola sull'argomento, il piano didattico personalizzato (in gergo PDP), viene purtroppo vissuto come una mera incombenza burocratica.

In rari casi è il "referente di caso" (figura non obbligatoria prevista dalla legge 170 del 2010, che la maggior parte delle scuole sceglie di istituire) che può approfondire il dialogo con la famiglia e con lo studente, ma si tratta di sporadiche scelte personali che non cambiano il desolante quadro d'insieme.

Tralasciando volutamente tutta la discussione sull'approccio medicalizzante previsto dalla legge 170 del 2010, lo strumento, il PDP, appare progettato per formalizzare e tracciare quella che è considerata universalmente una buona pratica didattica: osservare lo studente per conoscerne punti di forza e di debolezza, e conseguentemente mettere in campo strategie didattiche individualizzate ed inclusive, per favorirne il successo formativo, cioè l'apprendimento e il consolidamento delle abilità e delle competenze fondamentali.

Nei fatti però il PDP non funziona, e non aiuta quindi a perseguire efficacemente questi obiettivi.

A parole appare tutto abbastanza lineare, e insegnanti e genitori ci si trova facilmente d'accordo che sarebbe bello che non fosse così, e coralmente si vorrebbe che fosse uno strumento di comunicazione scuola-famiglia che permettesse di progettare, di coordinare, di declinare, di includere, ecc. e tanti altri bellissimi auspici. Ma, nei fatti, lo ripeto, genitori e insegnanti sanno che così non è.

E da questo punto in avanti... ci si divide.

Per molti genitori (non per tutti) la colpa è della scuola, anzi, degli insegnanti, che non si informano, che non si formano, che non si interessano, che non gli importa nulla, che rubano lo stipendio, e via a seguire fino ad arrivare, nei casi più estremi, alle cause legali. E lì, davanti ad un magistrato, anche se il PDP non è servito ad aumentare l'istruzione dello studente di un solo bit, lì il PDP, potrebbe finalmente servire.

Per gli insegnanti (non per tutti), d'altra parte, il PDP che i genitori vogliono è fondamentalmente inutile (ma lo si compila diligentemente per evitare i problemi di cui al paragrafo precedente). I genitori in questo caso vengono percepiti come degli scocciatori, un fastidio, anche, si badi, per i migliori tra gli insegnanti. Una perdita di tempo rapportarsi con i genitori per la compilazione del PDP, del preziosissimo tempo che si vorrebbe dedicare agli studenti ed alla materia insegnata.

A complicare la compilazione del PDP inoltre, ci si mette la "fretta" (chiamiamola così...) di molti neuropsichiatri (non tutti) e psicologi (non tutti). Nelle loro diagnosi di DSA infatti, dopo aver visto sì e no due volte o poco più lo studente, e aver passato la quasi totalità del tempo a somministrare test cosiddetti diagnostici, vengono infine copia-incollate tutte le misure dispensative e tutti gli strumenti compensativi previsti dalle linee guida della legge 170/2010.

E così, a disgrafici bravi in matematica viene consigliato l'uso della  calcolatrice e della tavola pitagorica, e a discalculici senza problemi di dislessia e di comprensione dei testi (che magari leggono velocemente libri su libri) viene consigliato maggiore tempo per la lettura e per lo studio, in tutte le materie. Per non parlare delle interrogazioni programmate, della dispensa dallo scrivere in corsivo, ecc.

Col PDP che nei fatti non funziona, quando lo studente con diagnosi di DSA ha dei problemi scolastici, la scuola e la famiglia, invece di collaborare, spesso confliggono.

Che fare?

Vorrei portare la mia esperienza di consulente aziendale (anche se la scuola NON è un'azienda, e non dovrebbe essere gestita come un'azienda, per motivi che esulano dagli obiettivi del presente scritto).

In definitiva il PDP appare essere un classico strumento nato per formalizzare una attività, per dare prova esterna, in caso di contenzioso, di aver svolto una attività prescritta.

Quando come consulente analizzavo i processi aziendali, ero incaricato dalla direzione (e ben pagato) di trovare nell'organizzazione i punti critici (dove le cose non andavano) e di proporre modifiche concretamente implementabili. Mi sono occupato praticamente solo di aziende di servizi (anche multinazionali), dove non aveva senso trovare il macchinario difettoso o il pezzo mal progettato: il mio campo di indagine erano le procedure aziendali, e le persone che erano preposte ad attuarle.

Si badi che non mi veniva chiesto di trovare i colpevoli del problema, perché era ovvio a chi mi incaricava che il problema non stava nelle persone (di solito). Infatti se in una organizzazione complessa una persona non svolge in modo dignitoso il proprio lavoro, tutti ne sono in breve tempo al corrente, e non serve certo un consulente esterno per identificarla. Questo è ovviamente ancor più vero per la scuola, dove l'interfaccia col mondo esterno, la classe, è composta di ragazzi e ragazze che hanno tutto l'interesse a rendere pubblici eventuali problemi con docenti negligenti.

Fatta questa doverosa premessa, se, com'è normalmente, i genitori (stakeholder esterni) non sono scocciatori, ma fondamentalmente persone giustamente preoccupate per i propri figli; se, com'è normalmente, gli insegnanti (stakeholder interni) non sono negligenti, ma docenti animati dal desiderio che i propri studenti apprendano... Dove sta allora davvero il problema?

La risposta, se fossimo in azienda, sarebbe semplice e diretta: il problema sta nel PDP, nello strumento scelto dal legislatore per regolare, formalizzare e tracciare l'attività di comunicazione e di relazione scuola-famiglia.

E la risposta è questa non perché li dico io, ma perché lo dicono con chiarezza i fatti. Se lo strumento non funziona.... È lo strumento che non funziona!  (A meno di non pensare che una maggioranza schiacciante degli insegnanti e dei genitori sia animata da volontà nichiliste e/o demoniache!).

Se devo scavare una buca ma la pala non funziona... Se devo scrivere ma la biro non funziona...

È lo strumento scelto il vero problema.

Le alternative ci sono. E sono ottime alternative. Per una comunicazione-relazione scuola-famiglia a tutto tondo ad esempio è utilizzabile la metodologia pedagogia dei genitori. Viene già utilizzata con pregevoli successi per accompagnare la compilazione del PEI, o semplicemente per aumentare la qualità della relazione tra insegnanti e genitori. Viene pure utilizzata in ambito sanitario ed educativo per la formazione del personale.

Ma il PDP è previsto dalla legge...

Sì, il PDP è previsto dalla legge, ma le modalità di compilazione e il processo per arrivare alla sua definizione non sono rigidamente normate, e si potrebbe mutuare l'esperienza già presente in diverse scuole d'Italia, dove si sta già utilizzando la metodologia pedagogia dei genitori per migliore il rapporto scuola-famiglia. Si tratterebbe di declinare la metodologia pedagogia dei genitori allo specifico problema della definizione di un PDP condiviso e corale, per fare in modo di costruire insieme, genitori e insegnanti nei rispettivi ruoli, un intervento pedagogico inclusivo, personalizzato e davvero efficace perché sostenuto dall'alleanza educativa tra docenti e genitori dell'intera classe.

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